La notifica via Pec della cartella si dimostra solo con il file nativo

L’uso della Pec ai fini della notifica comporta che la prova della consegna della cartella sia fornita utilizzando lo stesso strumento informatico. Pertanto, solo il file in formato

.eml o

.msg

tipici dei messaggi di Pec – possono dimostrare che a essere notificato, in quella data, sia stato proprio quell’atto. Il principio è stato affermato dalla Corte di giustizia tributaria di primo grado di Siracusa con la sentenza 225/5/2024, la quale, adottando il criterio della ragione “più liquida”,

ha annullato una intimazione di pagamento perché il deposito del file in formato .pdf da parte dell’agente della riscossione non provava l’avvenuta notifica dell’atto presupposto, ossia di una delle cartelle sottostanti.

La vicenda nasce dal ricorso proposto da una società contro l’atto di intimazione conseguente alla (presunta) notifica di una serie di cartelle di pagamento, asseritamente non impugnate.

  • La difesa contestava l’atto sotto i profili del difetto di motivazione (anche riguardo il calcolo degli interessi) e della mancata notifica degli atti presupposti, con specifico riferimento a quattro delle nove cartelle sottostanti (in alcuni casi comunque tardive, per intervenuta decadenza).
  • L’agente della riscossione, costituitosi in giudizio, rivendicava il contenuto vincolato di ogni atto di intimazione, il che lo metterebbe al riparo da qualsiasi contestazione circa il suo requisito motivazionale; tanto più che, trattandosi di iscrizioni a ruolo derivanti dalla liquidazione delle dichiarazioni, il debito era già conosciuto dalla società.

Quanto alla prova della notifica delle cartelle, l’esattore allegava alla propria costituzione in giudizio il file .pdf della ricevuta di consegna della Pec, indirizzata alla società.

  • La difesa privata, dal canto suo, replicava contestando quell’allegazione, stante il formato del file di consegna della Pec, peraltro partita da un indirizzo non presente nei pubblici registri.
  • La Corte siracusana, richiamando l’ordinanza 16189/2023 della Cassazione, ha accolto la tesi difensiva, in quanto l’allegazione del file in formato .pdf non è in grado di dimostrarne il contenuto.

La prova della notifica (che nei nuovi giudizi, peraltro, l’articolo 58 Dlgs 546/92, recentemente riformato dal Dlgs 220/2023, vieta espressamente possa avvenire in appello, quando avrebbe potuto essere fornita in primo grado), qualora avvenuta a mezzo Pec, necessita infatti del file “nativo”, ossia del formato .eml o .msg (a seconda del sistema operativo in uso).

Quest’ultimo è l’unico in grado di dimostrare che con quel messaggio di posta elettronica certificata sia stato notificato esattamente quell’atto e non un altro.

Infatti, per sua natura, quel file consente al giudice di esaminarne il contenuto, ciò che – invece – non è possibile fare con un semplice .pdf, il quale rappresenta una stampa, cartacea o virtuale, della Pec.

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